E' festa quando finisce tutto. Quando gli attrezzi si
posano, l'uva è messa a riposo e deve fare il suo lavoro lento.
Quando la vendemmia termina comincia la festa: e dopo tanta fatica la tavola
deve essere "importante", il cibo forte e ristoratore.
Partecipare alla festa della vendemmia o anche, alle stesse fasi di raccolta
dell'uva è davvero un'esperienza da compiere.
Si va indietro nel tempo quando tutto era più genuino ed il contatto con la
terra pieno. Sull'isola un rito che si compie ad ogni fine estate, a metà
settembre o inizio ottobre.
E quando viene san Martino, a novembre, scopriremo il risultato: si assaggia il
vino nuovo.
Ed è ancora festa.
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La vendemmia sull'isola d'Ischia |
Raccogliendo queste antiche tradizioni le Cantine Pietratoricia di Forio ogni
anno aprono a tutti la festa del vino nuovo. Novembre sull'isola è sempre mite
e stare insieme a brindare riscalda, se necessario ancora di più l'atmosfera.
Di seguito riportiamo un articolo che ben descrive la vendemmia isolana tratto
dal sito www.foriocultura.it
L’uva viene ancora oggi raccolta a mano e trasportata a spalla in ceste o
piccole cassette in modo da garantirne l’integrità; in alcune zone si
utilizzano ancora muli e asini (questi ultimi fino all’Ottocento unico mezzo di
trasporto), mentre nei vigneti più impervi e ripidi, come quello in località
Frassitelli, situato alle falde del monte Epomeo a circa 500 metri sul livello
del mare, sono state introdotte monorotaie.
I contenitori tradizionali per il trasporto dell’uva, tutti in legno di
castagno, sono tini, cupelle e ‘u tavut, una cassa di forma rettangolare
utilizzata per il trasporto a dorso del mulo. La vendemmia, soprattutto in
passato, rappresentava un evento talmente importante da coinvolgere l’intera
famiglia.
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La vendemmia sull'isola d'Ischia |
La settimana precedente ci si dedicava ai preparativi che richiedevano molto
lavoro e fatica e comprendevano la pulitura con acqua bollente del palmento,
del torchio, dei tini, il lavaggio accurato delle grosse botti, in cui si
entrava per sciacquarle più volte con acqua calda e strofinarle all’interno con
una scopa dura di mortella.
Il giorno della vendemmia le operazioni da svolgere erano tante e richiedevano
velocità e destrezza.
L’uva era talmente preziosa che ogni residuo delle diverse fasi di lavorazione
veniva riciclato e riutilizzato.
La raccolta dell’uva iniziava di primo mattino.
I grappoli venivano recisi dalla vite con coltelli ricurvi o con forbici e
fatti cadere nei tini, recipienti di doghe di legno che erano poi trasportati
fino alla cantina a spalla o, in caso di lunghe distanze, a dorso di muli.
L’uva da tavola destinata al consumo familiare era invece raccolta nei canestri
o in contenitori di canna e vimini dette “cufanelle”. Fino a qualche decennio
fa alle donne spettava il compito di raccogliere l’uva detta cuglienara,
caratterizzata da acini grossi, dalla quale, una volta essiccata, si ricavava
il vino “sorriso”.
L’uva raccolta nei tini veniva portata nella cantina e scaricata nel palmento,
una grande vasca in lapillo battuto dove avveniva l’operazione della pigiatura,
detta “a’ carcatura”: uno o più uomini entravano nel palmento a piedi nudi e,
immersi nei grappoli d’uva fino all’anca, premevano i grappoli alzando le gambe
con un movimento ritmico e veloce, che spesso accompagnavano intonando canti.
Questa procedura esisteva fin nell’antichità, come testimoniano tracce di
palmenti magno-greci nell’isola.
Il mosto ricavato dalla prima pigiatura si riversava attraverso un foro del
palmento in un’altra vasca più piccola, dove veniva raccolto in apposite
tinozze di legno, ‘u t’niell’e, poste sotto ‘u doce, il monolite di pietra
vulcanica forato al centro che collegava il palmento superiore con quello
inferiore.
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La vendemmia sull'isola d'Ischia |
Attraverso imbuti di legno il mosto dalle tinozze veniva riversato in grosse
botti dove avveniva la fermentazione, mentre il liquido fuoriuscito e
depositato sul fondo del palmento inferiore veniva recuperato con una paletta
di legno con un’estremità rivestita di lamierino metallico, detta ‘a sassola.
Per far scorrere liberamente il mosto verso ‘u doce le vinacce residuo della
spremitura venivano ammassate lungo le pareti laterali del palmento.
L’operazione era chiamata ‘u munacielle (da munaccie = vinaccia).
La fase successiva era quella della torchiatura che, prima dell’avvento del
torchio a vite, detto anche di Plinio (un esemplare tedesco del 1486 è esposto
nel Museo Contadino di Casa D’Ambra), avveniva con il cosiddetto torchio di
Catone, caratterizzato dall’uso della pietratorcia.
Questo sistema di torchiatura, risalente almeno al II sec. d.C., è stato
utilizzato sull’isola fino a cinquant’anni fa.
La vinaccia veniva ammassata al centro del palmento superiore formando ‘u
murillo, sul quale venivano poste tavole a più strati che reggevano un pezzo di
legno utilizzato come alloggio per un lungo palo di castagno.
Ad un’estremità del palo erano legate due corde che reggevano un altro elemento
ligneo, ‘u mul’nielle, al quale era legata con una fune ‘a preta torcia, un
grosso e pesante masso di tufo verde dalla forma simile ad una campana.
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La vendemmia sull'isola d'Ischia |
Con l’abbassamento graduale del palo si otteneva una torchiatura soffice della
vinaccia che durava due o tre giorni. Il mosto ricavato dalla torchiatura
veniva aggiunto a quello vergine. La botte veniva coperta con una foglia di
fico. La fermentazione durava 30-40 giorni. I contadini conoscevano alcuni
trucchi naturali per migliorare la qualità del vino prodotto. Ad esempio,
quando la qualità dell’uva non era perfetta, si aggiungevano al mosto in fase
di fermentazione basilico e petali di rose, in modo da aromatizzare il vino e
mascherare il sapore e l’odore di muffa.
Per dare invece una colorazione più intensa al vino rosso venivano usati i
frutti dell’uva di Spagna, detta in dialetto pegna strommele, una pianta
tintoria di origine americana introdotta in Europa dagli Spagnoli e
spontaneizzata sull’isola già dalla prima metà dell’Ottocento. La vinaccia
rimasta nel torchio, ‘u trocchie, veniva distesa nel palmento e lasciata
fermentare con l’aggiunta di acqua per circa tre giorni; da questa operazione
si otteneva un vinello chiamato saccapann, utilizzato per il consumo giornaliero
del contadino.
La fine della vendemmia si festeggiava con una grande tavolata all’aperto, dove
si banchettava con pasta al sugo di coniglio, il vino vecchio spillato nei
boccali di terracotta (detti arciulo e pizzepapere) e il tipico coniglio allacacciatora cucinato nel tegame di argilla, il tian’. I festeggiamenti talvolta
proseguivano con danze e canti. Terminata la fermentazione, la botte veniva
chiusa con un tappo di sughero ricoperto di sabbia e il vino era lasciato a
decantare fino al mese di febbraio quando, con la luna crescente, il contadino
eseguiva la “sfecciata”, ossia separava il vino dalla feccia e lo travasava.